11 giu 2021

L’arte di Nicola Verlato, tra pittura figurativa e tecnologie avanzate. Intervista

Tratto da Arte Magazine, 04 Giugno 2021

ROMA - Tra la pittura rinascimentale e lo sviluppo della realtà virtuale corrono oltre 500 anni, eppure questi due “mondi”, queste due visioni apparentemente così distanti presentano inverosimilmente punti di contatto. D’altra parte l’innovazione tecnologica ha inaugurato un ritorno a un nuovo paradigma che richiama, in qualche modo, la progettualità rinascimentale di ricostruzione geometrica del mondo, evidente nelle opere di Piero della Francesca o di Paolo Uccello.

A parlarcene è Nicola Verlato (Verona, 1965), artista internazionale, che attualmente vive e lavora a Roma, dopo un periodo di circa 14 anni trascorso negli Stati Uniti.

La ricerca di Verlato si affida alla concretezza materica di una pittura figurativa che, senza essere banalmente citazionista, strizza l’occhio al passato, attraverso una personale re-interpretazione dell’arte rinascimentale, ma allo stesso tempo si muove nella sfera immateriale della modellazione digitale tridimensionale, proiettandosi in una dimensione futurista che, come sta dimostrando ultimamente anche il mercato dell’arte, è già parte della nostra realtà.

Parlando della tua pittura, si fa riferimento al tuo agire nel solco di una tradizione figurativa essenzialmente classica. Ritieni la tradizione un elemento fondante della tua arte?
Molto spesso la parola “tradizione” viene associata al tipo di lavoro che faccio. In realtà, però, non mi sono mai trovato in una situazione di continuità che implica invece la tradizione. Mi spiego meglio. Dall’infanzia sono sempre rimasto affascinato dall’arte Rinascimentale, ma frequentando il Liceo artistico mi sono sempre sentito dire che non era più possibile dipingere in quel modo. Ho dovuto dunque riconquistare un terreno apparentemente perduto. Sin dall’età di 5 o 6 anni ho avuto il desiderio di ripercorrere quelle tracce, non tanto per una forma di nostalgia passatista, ma perché secondo me quella era, ed è tuttora, la massima espressione artistica, la perfezione assoluta e il mio obiettivo è sempre stato riuscire ad emulare quel livello incredibile di tecnica.

La tua ricchezza iconografica decisamente sorprendente, iperrealista, monumentale, particolareggiata, connotata da forti contrasti luministici di intensità drammatica, è evidentemente influenzata dall’arte di Caravaggio. Ma non solo…
Caravaggio è stato per me una sorta di folgorazione. Ma non c’è stato solo lui. Ho cominciato a dipingere ad olio prestissimo e ho avuto modo in tutto questo tempo di approfondire diverse tecniche, come quella del Pontormo, di Rosso Fiorentino, di Michelangelo. I miei interessi si rivolgono principalmente a quel periodo che va dal Quattrocento agli inizi del Seicento, quindi Rinascimento, Manierismo, Barocco, un momento molto fecondo e di grande sperimentazione.

Nei tuoi dipinti la narrazione è molto importante ed appare caotica, eccessiva. Abbondano i personaggi, gli oggetti che quasi si scontrano, si sovrappongono, si mescolano. Sono opere molto cariche, con elementi altamente spettacolari, a volte anche violenti. Da cosa deriva questa scelta?
Utilizzo strutture compositive classiche per narrare e rappresentare temi che non sono necessariamente classici. Come accennavo prima non amo la nostalgia e non voglio fare opere nostalgiche. Narrazioni attuali possono, infatti, ambire ad essere formalizzate entro strutture compositive classiche. Vedo il classicismo come lo stile per eccellenza anche per tematiche contemporanee. C’è poi una sorta di esigenza, di volontà di aggredire visivamente lo spettatore, nello stesso modo in cui io lo sono stato dalla bellezza della pittura rinascimentale. In fondo il Giudizio Universale di Michelangelo è tra le opere più eccessive di tutti i tempi. Questo è lo stato emotivo che io cerco di evocare. Non è quindi lo spettatore ad entrare nel quadro, sono le immagini che si proiettano verso di lui, sono i personaggi del dipinto che cercano di penetrare nella nostra realtà, non il contrario. Per questo le figure sono aggettanti, sempre sul limite della superficie pittorica. Anche Caravaggio sembra far emergere dall’oscurità e dall’oblio del tempo le immagini che, attraverso squarci di luce, irrompono nel nostro mondo. Dipingo spesso situazioni che suggeriscono violenza per lo stesso motivo. Ma come si può notare è una violenza non cruenta, non c’è mai sangue, infatti. La violenza è parte del nostro mondo, a me interessa osservarla, poterla considerare, ma in una forma razionalizzata. Cerco di recuperare e restituire il senso di una tragicità classica, dove c’è però una sospensione di giudizio.

Quando parli della volontà di proiettare i personaggi delle tue opere al di fuori della superficie pittorica, quasi a raggiungere una forma di interazione con lo spettatore, è con questo stesso principio che hai iniziato a interessarti di modellazione digitale in 3D?
Si assolutamente.Il passaggio ovviamente è stato più lungo, ma l’essenza è questa. Per fare in modo che le figure vengano nel nostro spazio devono provenire da uno analogo al nostro. L’interesse nei confronti della modellazione tridimensionale è iniziata nel 1982, dopo aver visto il famoso film “Tron”. Mi avevano colpito tantissimo le prime sequenze di CGI (Computer generated imagery - "immagini generate al computer”, ndr) all’interno di un lungometraggio. Vedendolo mi sono reso conto della coincidenza fra i wireframe ("modello in fil di ferro" - indica un tipo di rappresentazione in computer grafica di oggetti tridimensionali, ndr) dei modelli 3D del film e i disegni prospettici di Piero della Francesca e Paolo Uccello. Ho capito che l’essenza del Rinascimento, questa rappresentazione geometrizzata del mondo, corrispondeva esattamente a quello che veniva fatto con il computer dopo ben 500 anni. Questa tecnologia, dunque, ha permesso di riavviare un progetto lasciato in sospeso per secoli. Un aspetto questo totalemente opposto alla fotografia che ha invece messo in crisi la rappresentazione. Un paragone che faccio spesso per spiegare la differenza tra immagini fotografiche e immagini prodotte al computer, è quello tra Piero della Francesca e Jan van Eyck. Quest’ultimo, ad esempio, dipingendo i Coniugi Arnolfini ha realizzato una documentazione di quanto si è svolto davanti ai suoi occhi. E questo è ciò che accade esattamente con l’immagine fotografica. Nelle opere di Piero della Francesca è invece evidente un progetto di rappresentazione molto più articolato e complesso, basato su un approccio prospettico e geometrico dal quale è possibile sviluppare una nuova spazialità. Questo è lo stesso principio alla base dei videogiochi. Con le immagini digitali si sta quindi superando il paradigma fotografico.

Dall’82 in poi ho quindi cercato spasmodicamente di impadronirmi della tecnologia, con non poche difficoltà devo dire, anche a causa dei costi elevatissimi. All’inizio degli anni ’90 ho cominciato a realizzare modelli di buona qualità. Inizialmente immaginavo l’architettura di una scena con il digitale e realizzavo altri elementi con modelli in creta, cercando poi di combinarli. Ora riesco a produrre quasi tutto il progetto esclusivamente in digitale. In due giorni oggi realizzo quello per cui all’epoca impiegavo circa un anno.

Scultura e pittura, in particolare, continuano sempre ad essere elementi imprescindibili e portanti del tuo lavoro e della tua ricerca?
Credo che la pittura sia il medium più potente che esista. La pittura è l’immagine ultima di tutte le immagini. La pongo sempre al vertice di una gerarchia mediale. Questa almeno è la mia visione, magari anche un po’ ortodossa. Ma fino a che una narrativa non riesce a trovare il modo di essere fissata in termini pittorici non può arrivare alla fine del percorso di trasformazione dal divenire all’essere, dal tempo a una presenza nello spazio. Informazioni che dal tempo si coagulano nello spazio. All’interno di questo processosi inseriscono anche i nuovi media, fra cui gli Nft.

Puoi spiegare questo concetto?
Sappiamo che si può trasformare in Nft qualsiasi cosa, una foto, una conversazione telefonica, un messaggio ecc… Grazie a questa tecnologia è finalmente possibile associare un nome agli artefici di videogiochi o di film di animazione in 3D. In passato non sapevamo assolutamente chi fossero i protagonisti di queste creazioni. Oggi sono invece professionalità riconosciute e non solo ingranaggi all’interno di un grande meccanismo di produzione. Si è arrivati a questo grazie anche all’Nft, attraverso questa tecnologia, infatti, un certo tipo di lavoro riesce a riscattarsi e mostrare la sua centralità estetica. Queste immagini progettate e modellate sono un ulteriore anello all’interno di questo processo dove praticamente il tempo viene spazializzato.

Ovviamente quando si parla di Nft, viene subito in mente l’opera di Beeple Crap battuta all’asta da Christie’s a New York per quasi 70 milioni di dollari. Anche Sotheby’s prossimamente dedicherà un’asta proprio a questa tecnologia. C’è pericolo si tratti solo di speculazione, oppure siamo effettivamente di fronte a un cambiamento epocale del sistema dell’arte?
Io sono sicuro che quello a cui stiamo assistendo è la fine di un lungo processo durato oltre quarant’anni. L’arte digitale esiste da tanto tempo, ma solo ora viene formalizzata attraverso la tecnologia della blockchain. Questo sta cambiando di sicuro anche il sistema dell’arte. In realtà un cambiamento si è già verificato rispetto ai primi anni del duemila, in cui le gallerie d’arte quasi schifavano il web e questi tipi di media. Le grosse gallerie sono quindi arrivate in ritardo rispetto a queste novità. Gli Nft rappresentano un ulteriore tassello del cambiamento. Sicuramente l’aspetto speculativo c’è, ma è al servizio di un progetto culturale. D’altra parte l’arte contemporanea si afferma anche attraverso grandi speculazioni, battute d’aste incredibili, per le quali magari ci si meraviglia. Ma è evidente che attraverso la speculazione si affermano principi culturali, più o meno condivisibili, soprattutto ora che la critica d’arte ha un ruolo ridimensionato, più debole rispetto al passato. Oggi un critico o un curatore non hanno lo stesso potere che potevano avere negli anni Novanta del secolo scorso. Sbriciolandosi il senso della critica i valori estetici si affermano attraverso il valore economico. Per quanto riguarda Beeple Crap vale lo stesso discorso. Questa vendita, di cui ora tutti parliamo, ha un carattere culturale che impone un nuovo paradigma. Il fatto che due indiani abbiano acquistato l’opera suggerisce il ribaltamento di una situazione. Non sono più gli americani che vanno in giro per il mondo a scoprire artisti, in una forma di colonialismo culturale. Accade esattamente il contrario: due indiani comprano l’opera di un americano imponendo un cambiamento, generando una specie di tornado che forse finalmente ci farà entrare nel 21esimo secolo. Finora, infatti, è stato come se gli anni Novanta si fossero protratti fino agli anni venti di questo secolo.

Insomma, a tuo avviso non si tratta di una bolla destinata a scoppiare, ma l’inizio di un più profondo e sostanziale cambiamento…
Vedremo cosa succederà. Al momento io sto vendendo in Nft sul sito della Galleria Postmasters di New York. Anche molte persone che conosco stanno cominciando a farlo. Inoltre, forse, è arrivato il momento in cui il lavoro del pittore potrebbe riuscire ad inserirsi all’interno di una produzione industriale, nel senso positivo del termine. Negli ’50, ’60, ’70 i musicisti registravano in studio un nastro che diveniva poi la matrice per i vinili. La matrice rimaneva di proprietà degli artisti. Questo non è stato mai possibile per i pittori, sempre legati all’idea di un progetto artigianale, di una produzione di singoli elementi, inseguendo l’idea dell’oggetto unico. Ecco, l’oggetto unico potrebbe invece diventare una sorta di matrice per una produzione seriale. Questo si potrebbe verificare grazie agli Nft. Un cambiamento del genere porterebbe l’artista all’interno di uno status mai raggiunto finora. Rispetto ad altre forme artistiche, la pittura è sempre rimasta fuori dalla produzione industriale di massa.

Andy Warhol con le serigrafie è riuscito in un discorso di questo tipo però…
Infatti, ma lui ha trovato la soluzione nella serigrafia e non attraverso oggetti dipinti. Due figure a cui faccio riferimento sono Andy Warhol e De Chirico. Warhol è colui che ha gettato le premesse per rapportarsi anche con altri media. E’ riuscito inoltre a portare all’interno di un sacrario dell’impossibilità dell’immagine, come il MoMa, che ha una tradizione legata prevalentemente all’astrattismo, un’icona bizantina come Marilyn Monroe, un’immagine non dipinta, ma seriale, appunto. De Chirico è invece l’artista visionario che d’un balzo ha attraversato tutto un secolo.

De Chirico? La Metafisica di De Chirico, almeno apparentemente, nella sua algida immobilità, sembra essere l’esatto opposto della tua arte, che è invece un trionfo di movimento, di azione. Perché questo riferimento?
De Chirico ha attraversato tanti periodi. Quello iniziale Metafisico. Negli anni ’20 ha invece cercato di avvicinarsi a un classicismo Rinascimentale, poi pian piano è diventato un De Chirico addirittura barocco, che si è spinto a dipingere addirittura battaglie. Sicuramente non mi ispiro alle sue battaglie, alle rappresentazioni di cavalli, ma vedo in lui un artista che ha iniziato il secolo con delle visioni sospese e poi ha saputo attraversarlo e tornare alla centralità del dipingere in termini pieni, includendo immagini, che non voglio definire aggressive, ma di sicuro molto cariche, in cui non manca davvero nulla.

Per te l’arte continua ad avere un suo valore sociale?
L’opera d’arte nella modernità ha avuto un valore sociale in quanto non l’ha avuto, nel senso che lo ha perso del tutto. Forse oggi potrebbe recuperalo.

Ha perso valore in che senso?
L’arte contemporanea è sostanzialmente iconoclasta e spesso non produce esiti da un punto di vista sociale. Questo discorso in Italia in realtà è più difficile da comprendere, in quanto abbiamo una forma mentis per cui ci scervelliamo a trovare sempre un valore sociale all’opera d’arte e quindi alla fine riusciamo ad attribuirglielo. Ma io sono vissuto sette anni a New York e sette a Los Angeles, ed ho visto che effettivamente, dopo la seconda guerra mondiale, c’è stata la volontà di far in modo che l’arte non avesse alcuna funzione nell’ambito del tessuto urbano. L’unica possibilità che ha avuto è stata quella di essere rinchiusa in “scatole”, le white box, come il MoMa, il Guggenheim, il Metropolitan Museum. Al di fuori non c’è traccia di opere d’arte. Noi in Italia siamo abituati a una situazione opposta. A Roma ogni due metri c’è un’opera d’arte che ha determinato la forma stessa della città. C’è una penetrazione continua tra questi due mondi. Negli Stati Uniti una situazione del genere sarebbe controproducente da un punto di vista economico. L’opera d’arte, infatti, può essere un ostacolo in quanto produce un’affezione emotiva sulla comunità. Per una logica di estremo capitalismo niente deve avere senso, in questo modo tutto diventa manipolabile, rimovibile, intercambiabile. Se si costruisce un monumento questo diventa un fatto emotivo che incatena un luogo. Da noi l’opera d’arte è l’unica entità che riesce a fermare l’aggressività del capitale. In America evitano che questo possa accadere. Solo i musei hanno un ruolo sociale, ma sono un po’ come una sorta di parchi divertimento. C’è tuttavia attualmente un certo movimento che sta nascendo dal basso, per cui giovani pittori e scultori stanno cercando di riappropriarsi del ruolo sociale dell’arte. Anche attraverso la Street Art.

A proposito di Street Art tu hai dedicato un murale a Pasolini
Ho realizzato due lavori, uno a Tor Pignattara, l’altro a Ostia, che fanno parte di un progetto molto più ampio. Basandomi sulla figura di Pasolini e sulla sua importanza storica, sociale e simbolica, provo a recuperare appunto la funzione sociale dell’opera d’arte.

Progetti a cui stai lavorando al momento?
Sto lavorando su due progetti. Uno riguarda la rivalutazione del monumento, inteso non semplicemente come figura che si erge su un piedistallo. Si tratta di una ricerca molto più complessa, dedicata appunto a una figura della contemporaneità come Pasolini. Poi sto realizzando dei lavori dedicati al mondo digitale, attraverso i quali cerco di mostrare quanto questo possa avere il potere di farci recuperare una solidità etica anche rispetto alla pittura di figura. Lo scorso anno ho fatto una mostra a New York alla Postmasters Gallery dedicata a questo tema. A mio avviso è possibile realizzare opere contemporanee grazie all’utilizzo delle tecnologie che permettono di rivitalizzare l’approccio figurativo all’arte.

Pensiamo al quadrato nero di Malevich, che è stato un po’ questa spada di Damocle sul discorso della rappresentazione delle immagini dipinte. Oggi a ben guardare dentro a quel nero cominciano a vedere riaffiorare figure poligonali e geometriche. Con il potere della tecnologia queste geometrie possono diventare immagini organiche. Il dipinto trasforma il transeunte in qualcosa di stabile, ristrutturato dalla geometria. E’ un po’ come nell’età del bronzo, con questo materiale prima si producevano oggetti di utilità, come spade, poi si è cominciato a realizzare delle sculture. Lo stesso accade con il computer. Nato per fare simulazioni di volo per l’esercito, oggi è diventato un mezzo per fare arte.

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