May 20 2022

L'eros è delicato e memoria nelle opere di un artista apolide, tra Milano, la Puglia e Lucian Freud

Tratto da NouvelleFactory - Ilaria Introzzi 10 mag 2022

Ancora una volta è Instagram a suggerire ritratti interessanti da scoprire. Come i soggetti che realizza Leo Ragno, nato a Milano nel 1984, di origini Pugliesi, regione nella quale torna per crescere un’infanzia con un’unica ossessione: l’arte. Inizia con il disegno, pratica che non mollerà mai, per poi approdare alla pittura, studiandola all’accademia di Foggia. Negli anni viene accolto da un’altra istituzione, l’accademia di Brera, dove oggi insegna. I suoi lavori, invece, i quali viaggiano in un trittico emozionale fatto di luoghi, erotismo e memoria, vengono rappresentati da diverse gallerie, anche estere, tra cui la parigina Angela Ghezzi. Dal 23 maggio sarà tra i protagonisti di Quadri da marciapiede di Olimpia Rospigliosi con la curatela di Bohdan Stupak.

Quando sono venuta a trovarti in studio per la prima volta ho scoperto che all’anagrafe ti chiami Pantaleo: mai nascondere le cose a una giornalista, te l’hanno mai detto?
- (Ride, ndr). È il nome di mio nonno ed è anche quello del santo patrono di Bisceglie e io sono Pugliese. Sono stato chiamato così perché sono nato un anno dopo la morte di mio nonno. Ho scoperto il significato del nome solo tempo dopo, che deriva del greco e via discorrendo, perché mi sono sempre fatto chiamare Leo e tutti mi hanno sempre chiamato così. Ora sarebbe difficile tornare al nome d’origine. -

Io lo trovo affascinante.
- Sai adesso anche io: meglio Pantaleo di Leonardo, sicuramente. -

Quand’è che (Panta)leo ha avuto il suo imprinting con la pittura?
- Banalmente, ho sempre disegnato e mostrato una certa predilezione per il campo artistico, anche a livello scolastico. Nonostante ciò ho studiato al liceo scientifico, durante il quale, paradossalmente, è venuta fuori la mia vena artistica in senso stretto. Spinto dalla famiglia, ho cominciato l’accademia a Foggia, dove mi sono iscritto a pittura. Avevo il desiderio di farla bene, impegnandomi. Grazie anche alla passione per la storia dell’arte e la fascinazione che questo mondo ha sempre avuto su di me. -

Cosa significa avere una famiglia che ti appoggia?
- È bello. Spesso è il contrario. Probabilmente loro avevano visto qualcosa. Sai, inizialmente, non che avessi paura, però per una serie di cose facevo fatica a fare quel passo in più, quello che poi mi ha portato in accademia. Il liceo artistico che volevo fare era distante, quindi mia madre mi convinse, come ti ho detto, ha studiare altro, nell’attesa di capire meglio se l’arte era davvero la mia strada. Lei, una volta che mi ha visto convinto, ha compreso e sostenuto. -

E un’epifania attraverso l’opera di un pittore c’è stata?
- Probabilmente la Madonna di Munch. Lo ricordo come un quadro che mi affascinava parecchio rispetto al modo di ritrarre la donna. Scoprire quel tipo di espressività mi ha smosso molto. Un’altra epifania l’ho avuta con Lucian Freud, la sua estrema contemporaneità del rappresentare la figura. -

Sei nato a Milano ma di origini Pugliesi, ora vivi nuovamente qui, dove insegni all’accademia di Brera: ti influenzano di più i luoghi o la memoria?
- Bella domanda. Maggiormente i luoghi, ma sicuramente entrambi. A Milano ho trovato dei volti diversi rispetto a quelli a cui ero abituato, visto che dopo la mia nascita sono tornato nella mia Terra, dove sono cresciuto. Per questo ti direi di più i luoghi. La diversità di facce, di corpi. Questo cambiamento è stato importante perché ho avuto anche la possibilità di espressioni inedite. Milano, a differenza della provincia, a proprio questa diversità e mi è piaciuto molto studiarla. Anche la memoria del luogo dove “non sono”, sicuramente però influisce. -

Quindi quando torni in Puglia fai una sorta di “pieno” di memorie?
- Sì e no: quando vivi tra due posti è complicato. La mia casa è lì, ma quando sono lì poi non mi sembra di appartenervi. C’è una nostalgia continua tra un posto e l’altro. Non mi sento di appartenere in alcun luogo, di mettere le radici. I legami sono affettivi, non geografici. -

Se ci metti troppo a fare un dipinto c’è qualcosa che non funziona, perché e qual è, quindi, tuo modus operandi?
- Verissimo. Sono molto d’accordo con i pittori che dicono che bisogna lavorare 8 ore al giorno, anche se io non riesco ancora a farlo. Purtroppo sono uno di quelli che ha dei periodi molto produttivi e altri no, nei quali però disegno sempre. Il mio pensiero non è mai lontano dal lavoro: è costante dal punto di vista mentale, penso sempre alle figure, alle immagini. La mia routine, se non ho lezione in accademia, è proprio quella di andare in studio, preparare la tela e tutto il resto. Sono abbastanza veloce, in una costruzione che però va per fasi: la prima giornata devo fare un quarto, la seconda metà, ecc. Se sforo troppo, tempistiche tecniche a parte, qualcosa non va. E il mio obiettivo è ridurre ancora di più. Tieni presente che a me convince sempre la prima fase, un mettere e togliere che è un continuo finire e iniziare. Faccio la figura e poi cancello, ne rimane solo la forma, alla quale poi tolgo e aggiungo, continuamente. È un lavoro molto rapido, paradossalmente. -

Da qualche tempo lavori con due colori: rosa e azzurro. Perché?
- Sono arrivato al rosa dopo un periodo di grigi, di bianco e nero. A un certo punto ho deciso di sfruttare la tavolozza, nel tentativo di averne una mia. E qui entra in gioco la memoria, come sensazione di assenza di colore: quando ricordo, non riesco a ricordare i colori, quindi il bianco e nero esprimevano a livello cromatico questo ragionamento. Da lì, poi, ci sono stati vari tentativi per dare a questo concetto un contenuto emotivo, relativo al ricordo. E la scelta del rosa, che poi in realtà è più vicino al porpora, mi è sembrato che potesse avere quel calore adeguato per dare un’intimità al ricordo. Dopo un periodo che continua tutt’ora ho pensato che potesse esserci anche un’alternativa, questi azzurrini-verdi che fossero freddi ma non troppo, dato che il ricordo è anche questo: melanconico. La mia intenzione è quella di unirli. -

Lo farai?
- Non lo so. Ogni tanto faccio dei tentativi, ma ancora non sono arrivato a un’unità di soggetti che lo rendono possibili. Ancora sono due tonalità troppo staccate quando le metto insieme. Con il rosa ho creato il mio mondo, ed è difficile uscirne. -

C’è molta luce nei tuoi dipinti, specialmente in quelli rosa.
- Sì c’è questa luminosità, data ovviamente da espedienti tecnici, come il bianco sotto, che fa da velature, un insieme di velature. Ma anche con il verde riesco a ottenerla e le figure, in questo caso, è come se emergessero. Ti dirò una cosa, che forse non ti ho detto prima: una delle immagini che più mi sono rimaste impresse nella vita è stato l’11 settembre 2001, le Torri Gemelle. In particolare delle immagini, di queste persone perse che camminavano nella polvere. L’idea di inserire delle figure in quella polvere… negli ultimi anni mi sono chiesto come dipingerle, certamente non riuscendoci del tutto, lavorando proprio sul concetto di spazio, di come “spingere” una persona all’interno di esso, senza definirla totalmente. -

Come dicevamo in studio: i tuoi lavori in generale non hanno tratti ultra-definiti.
- Esattamente. -

Sulla scia della delicatezza, molti tuoi disegni e dipinti rappresentano scene erotiche: che significato ha per te questa parola?
- Molto deriva da L’erotismo di Bataille, un testo che mi ha influenzato tantissimo e dal quale è venuta l’idea per realizzare la mostra sui disegni fatti sul tema. Avevo già svolto qualche lavoro in precedenza, ma per approfondirlo questo libro è stato fondamentale per approfondire il tema. L’erotismo è, se ci pensi, un tema piuttosto classico. L’idea era ed è quella di rappresentare qualcosa di molto spinto e... -

Forse elegante?
- Sì esatto, è una parola che mi piace molto. Raffigurare un atto spinto di passione che possa ammorbidire il tutto, senza edulcorarlo, per fare in modo che lo spettatore possa osservare la scena assorbendola, facendola sua in maniera dolce e piacevole.

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